Violetti e turgidi como carni segrete sono i calici dei fiori di Ogigia; piogge leggere e brevi tiepide, alimentano il verde lucido dei suoi boschi; nessun inverno intorbida le acque dei suoi ruscelli.
È trascorso un battere di palpebre dalla tua partenza che a te pare remota; e la tua voce, che dal mare mi dice addio, ferisce ancora il mio udito divino in questo mio invalicabile ora. Guardo ogni giorno il carro del sole che corre nel cielo e seguo il suo tragitto verso il tuo occidente; guardo le mie mani immuttabili e bianche; con un ramo traccio un segno sulla sabbia –come la misura di un vano conteggio; e poi lo cancello. E i Segni che ho tracciato e cancellato sono migliagia, identico è il gesto e identica è la sabbia, e io sono identica. E tutto.
Tu, invece, vivi nel mutamento. Le tue mani si sono fatte ossute, con le nocche sporgenti, le salde vene azzurre che le percorrevano sul dorso sono andate assomigliando ai cordami nodosi della tua nave; e se un bambino gioca con esse, le corde azzurre sfuggono sotto la pelle e il bambino ride e misura contro il tuo palmo la piccolezza della sua piccola mano. Allora tu lo scendi dalle ginocchia e lo posi per terra, perché ti ha colto un ricordo di anni lontani e un’ombra ti è passata sul viso: ma lui ti grida festoso attorno e tu subito lo riprendi e lo siedi sulla tavola di fronte a te: qualcosa di fondo e di non dicibile accade e tu intuisci, nella trasmissione della carne, la sostanza del tempo.
Ma di che sostanza è il tempo? E dove esso si forma, se tutto è stabilito, immutabile, unico? La notte guardo gli spazi fra le stelle, vedo il vuoto senza misura; e ciò che voi umani travolge e porta via, qui è un fisso momento privo di inizio de di fine.
Ah, Odisseo, poter sfuggire a quiesto verde perenne! Potere accompagnare le foglie che ingliallite cadono e vivere con esse il momento! Sapermi mortale.
Invidio la tua vecchiezza, e la desidero: e questa è la forma d’amore che sento per te. E sogno un’altra me stessa, vecchia e canuta, e cadente; e sogno di sentire le forze che mi vengono meno, di sentirmi ogni giorno più vicina al Grande Circolo nel quale tutto rientra e gira; di disperdere gli atomi che formano questo corpo di donna che io chiamo Calipso. E invece resto qui, a fissare il mare che si distende e si ritira, a sentirmi la sua immagine, a soffrire questa stanchezza di essere che mi strugge e che no sarà mai appagata —e il vacuo terrore dell’eterno.